"Inclusione" o "invasione"?
Il volto ambiguo di una menzogna antica
Difficile “condividere” e vivere da fratelli, ma per davvero, quando la parola più di moda per definire correttamente il rapporto tra persone e culture sembra essere oggi “inclusione”.
Sembra logico chiedersi infatti e prima di tutto: “Chi include chi? e… “Come?”.
Il termine, indicherebbe, letteralmente, e semplicemente l’atto di includere un elemento all’interno di un gruppo o di un insieme. Ancor di più, in ambito sociale, significherebbe semplicemente “appartenere a qualcosa”, sia esso un gruppo di persone o un’istituzione, e sentirsi accolti.
Nulla di pericoloso dunque o inquietante. Ma, solo in apparenza. Conduce infatti molto spesso all'inferno una via lastricata di "buone intenzioni", specialmente quando un linguaggio ambiguo, intriso di parole pervertite nel loro significato originale, addita una direzione che, alla prova dei fatti, si rivela altrettanto falsa.
Nella società che viviamo, nella Storia che ogni giorno costruiamo, nei rapporti sociali concreti che costituiscono la complessa tessitura del nostro vivere quotidiano, questa parola, solo apparentemente innocua e persino accogliente, ha finito, infatti, giorno dopo giorno, alla prova dei fatti, col rappresentare la semantica di un “regime” ove l’inclusione non ha affatto gli scopi caritatevoli di cui si riveste in apparenza, ma piuttosto impone, ai disgraziati e sorridenti inclusi, il prezzo più alto per chiunque da pagare: il sacrificio della propria identità, di ogni libertà, spesso e volentieri perfino la negazione della persona e di ogni diritto umano, in linea con il progredire, nella politica di molte nazioni, del nuovo e totalitario "Ordine Mondiale" (globalizzazione).
Leggiamo a tal proposito sul Blog “ControNews” (“Il Nuovo Regime dell’inclusione” - 1 Marzo 2021):
“Siamo circondati, assediati ogni giorno di più, dalla nuova ideologia globalista della DEI, ovvero, Diversità, Equità e Inclusione, nel cui nome bisogna abbattere tutti i simboli di un nostro presunto passato di “oppressione”, fare tabula rasa della nostra identità culturale/biologica/nazionale. E spuntano anche i primi corsi di “rieducazione politica” (in puro stile marxista-leninista) dove a breve verremo mandati in massa, a chinare obbligatoriamente la testa di fronte all’indiscussa supremazia morale del nuovo ordine mondiale-inclusivo (…) un artificio con cui ci vogliono mantenere in uno stato di banalità elevata, impedendoci di vedere la degradazione con la quale stanno schiacciando il mistero che è in noi (…) La propaganda del regime è perentoria, non c’ è più spazio per il dissenso, dobbiamo ammettere la nostra ignoranza, ascoltare umilmente gli insegnamenti della scienza, della storia riscritta, della dittatura tecnocratica-sanitaria, e credere che stiano operando tutti unicamente per il nostro bene. In questo caso non serve nemmeno indossare gli occhiali, il messaggio è diretto, non fa uso di messaggi subliminali. Dobbiamo guardare la TV, spegnere il nostro cervello e smetterla una volta per tutte di usare il nostro pensiero indipendente per criticare l’autorità”.
Come si è disperso dunque tutto il calore di questo ipocrita e presunto sentirsi inclusi?
Nel contesto della nostra realtà, il senso della parola ha completamente rovesciato il suo significato originale, finendo piuttosto oggi, e purtroppo alla prova di tanti fatti di cronaca, con l’evocare scene e contenuti di una pellicola “cult” di fantascienza, molto nota negli anni ’50: “Fluido mortale” (“Blob” - del 1958, diretto da Irvin S. Yeaworth Jr.).
Ad “assorbire” letteralmente la nostra persona e le nostre coscienze non è in questo caso una fantastica “bolla” venuta dalle profondità dello spazio cosmico (come nel film), ma un costante martellamento mediatico quotidiano che alla fine finisce però col rivelarsi molto poco inclusivo e, al contrario, fastidiosamente invasivo all’orecchio di chi sa “ascoltare” ed è sempre poco incline a farsi imbrogliare o imbavagliare.
Si innesca così una mina a tempo per la reciproca fiducia, prima o poi destinata a logorare nervi e cuore fino all’inevitabile deflagrazione. Un vero attentato a ciò che abbiamo di più caro nella nostra vita: l’identità e la libertà.
A volte, come in Occidente, l’invasione culturale ( che si manifesta come globalizzazione) precede l’uso della violenza (sempre sottintesa, palpitante e ansiosa di “includere”), altre volte, come sempre più a Sud o verso l’Oriente, è quest’ultima (senza la vergogna dell’illecito) a imporre, senza compromessi o mezzi termini, la sua “rivoluzione culturale”.
In ogni caso, prima o poi sono i nervi quelli destinati a saltare, visto che “a forza” nessuna “resilienza” (altro termine ambiguo e serpentino…) resiste più di tanto all’insistenza “inclusiva” dell’aggressore che alfine non può che gettarla via quella maschera.
Ed ecco il trionfo del dolore nella violenza della verità. Dal quotidiano logorio della mai desiderata inclusione altrui, il trionfo dell’ostilità che prima o poi sfocia in guerra. Non è che il frutto perverso di quella forzatura dalla quale finalmente ci siamo liberati per non più “apparire” ma “essere” noi stessi. Un atto di pura follia, una violenza della quale molto volentieri avremmo potuto fare a meno se solo il contesto fosse stato ben diverso e magari molto meno “inclusivo”.
Ma anche una “lezione”, una presa di coscienza fondata su una verità antica come il mondo: nessun figlio è minore di un altro e nessuno ha l’autorità o il diritto di proclamarsi “inclusore” del suo fratello. Cessa ogni violenza solo quando, rifiutandoci di includere a tutti i costi, impariamo invece a riconoscerci e stimarci in una stretta di mano nel reciproco rispetto delle proprie riconosciute e ben separate identità.
Ma solo se ad essere sincero è, prima di tutto, il cuore.
Renato Pernice - 3.03.2022

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